Da un semplice diritto delle minoranze ad un diritto delle differenze

Abbiamo intervistato Francesco Palermo, noto costituzionalista e studioso di diritto delle minoranze, oltre che Senatore della Repubblica Italiana. In un’ampia intervista ci rivela una prospettiva nuova ed interessante sui fenomeni legati alle varie discriminazioni presenti nel nostro paese.

 Lei è uno studioso che si occupa dei diritti delle minoranze. L’Italia, come altri Stati è piena di minoranze etniche. La nostra Costituzione all’art. 6 cita la tutela delle minoranze linguistiche. Secondo Lei è riduttivo un’articolazione di questo genere, essendo le minoranze anche di altro tipo?

“La terminologia impiegata dalla costituzione ha sue ragioni storiche e di impostazione culturale. Tuttavia gli standard internazionali nel frattempo sviluppatisi in materia rendono meno rigida la delimitazione operata dalla costituzione. In particolare, la Convenzione Quadro per la protezione delle minoranze nazionali del Consiglio d’Europa – l’unico trattato internazionale giuridicamente vincolante in tema di tutela dei diritti delle minoranze – lascia sì agli Stati un margine di apprezzamento nella determinazione dei criteri per il riconoscimento dello status di minoranza, ma stabilisce anche che questi criteri non debbano essere arbitrari. Di conseguenza, le scelte operate dai legislatori nazionali sono sottoposte a scrutinio da parte degli organismi internazionali.

In secondo luogo, il proliferare degli elementi di diversità e delle richieste di differenziazione (dalle questioni di genere e di orientamento sessuale fino agli stili di vita, dall’età alla disabilità, dal diverso status giuridico che caratterizza varie categorie di persone giunte in tempi recenti sul territorio, ecc.) rende la tutela delle minoranze in senso classico solo un aspetto del più complesso problema del trattamento giuridico delle diversità. Con quali strumenti affrontiamo queste richieste? E’ chiaro che la semplice dicotomia uguaglianza formale – uguaglianza sostanziale non basta più. Che si fa se un sikh porta il suo pugnale tradizionale girando in città? Si consente di vestire il burqua e a che condizioni? Cosa significa “società naturale” riferito alla famiglia, e lo può decidere solo la maggioranza? Come si gestisce la crescente diversità linguistica e di stili di vita? E soprattutto – e non è una domanda retorica – come si consente a chi lo vuole di mantenere le caratteristiche della propria identità ma anche a chi lo desidera di non essere respinto per la sua diversità? Insomma, dal semplice diritto delle minoranze si sta passando all’assai più complesso diritto delle differenze.”

Faccio riferimento alla domanda precedente, poiché lo stesso art. 3 garantisce un’assoluta parità davanti alla legge di tutti i cittadini. Tuttavia esistono manifeste discriminazioni, come per i Sinti, i Rom, gli omosessuali, etc… Non sono tutelati dalla Costituzione?

“L’argomento che molti portano è fermo alle categorie del dopoguerra: ad alcuni va riconosciuto il diritto a misure positive (le minoranze “tradizionali”: si pensi da noi alla proporzionale, ai diritti linguistici, ecc. – ma ormai diffusamente anche per le minoranze di genere in certi ambiti: si pensi alle forme di promozione delle donne in diversi settori della vita pubblica ed economica); alle altre categorie di soggetti che reclamano un trattamento differenziato si applica invece l’uguaglianza formale, il solo principio di non discriminazione. Così si dice ad es. che non serve un’aggravante per reati contro gli omosessuali perché un reato è un reato indipendentemente dalla vittima.

Ma così si dimenticano due aspetti. Il primo è che in questo modo non si riconosce il fatto che alcuni comportamenti discriminatori sono posti in essere proprio con l’intento di colpire certe categorie di persone per loro specifiche caratteristiche (quindi: quando si picchiano gli omosessuali li si picchia perché omosessuali, non tanto per fare). Il secondo è che l’uguaglianza formale è l’uguaglianza della maggioranza, mai della minoranza: molte categorie di persone si trovano in posizioni svantaggiate a causa di specifiche caratteristiche, e ignorare questo aspetto significa condannare alla perpetuazione dei comportamenti discriminatori.

Faccio un paio di esempi per capire meglio. In Francia sono stati condotti molti esperimenti inviando curricula-“civetta” ai datori di lavoro: i curricula di gran lunga migliori appartenevano a candidati con un nome che suonava di origine straniera, quelli associati a nomi che “suonavano” francesi erano volutamente i cv più scadenti. Ebbene, ai colloqui di lavoro venivano invitati per oltre il 90% i candidati col curriculum peggiore ma col “nome francese”. Ancora, in Italia vi sono molte polemiche intorno al Ministro Kyenge, accusata da molti di essere in quella posizione “solo per il colore della sua pelle”. Quello che questi interessati fautori dell’uguaglianza formale dell’ultima ora fingono di non capire è che occorrono misure promozionali, che abbiano una portata anche simbolica, per ridurre la discriminazione di categorie che altrimenti saranno sempre discriminate. E’ il motivo per cui a forza di usare questi argomenti non c’è finora mai stato un ministro dalla pelle nera o un Presidente del Consiglio donna, e gli esempi potrebbero continuare.

Invocare la sola uguaglianza formale e chiudere gli occhi di fronte a questi aspetti impedisce di risolvere i problemi strutturali e di operare quell’indispensabile salto di qualità culturale che solo consentirà di superare i muri che ancora esistono in tema di diritti. Non è solo una questione di “buonismo”. Perché vi è una dimostrata connessione tra cultura dei diritti e sviluppo economico.”

Tendiamo ancora ad usare termini come “zingaro” oppure “Jude”, senza collocarlo in modo appropriato. Vivendo in Alto Adige lo noto spesso, anche tra i giovani. Secondo Lei cosa si dovrebbe fare concretamente per combattere questi stereotipi dettati più da una profonda ignoranza storica che da un razzismo radicato?

“L’ha già detto lei, questo è un fattore culturale. Bisognerebbe quindi semplicemente parlarne di più e meglio, a tutti i livelli, dalla scuola alla comunicazione (quanta colpa hanno i media nella banalizzazione di questi temi) alla politica. L’impegno sui diritti non porta voti, lo vedo nel mio piccolo ricevendo critiche basate sui soliti slogan ogni qualvolta porto avanti qualche iniziativa in tema di diritti, magari dei Rom o degli omosessuali. Quindi siamo in una spirale negativa: la scarsa cultura dei diritti fa sì che l’impegno sul punto non porti voti e dunque la politica non si impegna e non contribuisce a superare questa scarsa cultura.

Credo che come territorio caratterizzato da un solido sistema di tutela delle minoranze, costruito con fatica, sofferenza e anche tanti lutti, abbiamo tuttavia un dovere particolare rispetto ad altre zone. Qui dovremmo sapere meglio che altrove che i diritti non sono un lusso ma il fondamento della vita organizzata e anche del benessere economico. O si pensa che sia un caso che da quando i diritti delle minoranze sono stati tutelati e sviluppati l’Alto Adige sia passato in pochi decenni da un territorio poverissimo ad una delle regioni più ricche d’Europa? E’ triste notare con quale rapidità però le persone dimenticano cosa i loro padri e nonni hanno sofferto nel passato. O magari lo ricordino in modo unidirezionale e con spirito rivendicativo, ma mai con spirito di comprensione e solidarietà. E magari chi ricorda ad ogni piè sospinto i crimini del fascismo in questa terra è in prima linea per negare non solo i diritti ma persino il semplice riconoscimento ai Rom, agli omosessuali, ai migranti e ad altre categorie discriminate. C’è purtroppo molto, moltissimo lavoro da fare…”