Intrighi, spionaggi, rapine, loschi personaggi nazisti nella storia della ragazza dalla doppia identità incarcerata a Trento nel 1948.
(TERZA PARTE)
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Nel frattempo il processo andava avanti e i quotidiani continuavano ogni giorno a dare in pasto ai lettori notizie contrastanti sull’identità della detenuta suffragate da dichiarazioni che a volte la descrivevano come vera principessa, altre volte come una reale impostora. E se in quegli stessi giorni il quotidiano “Alto Adige” titolava: “La principessa derubata diventa rapinatrice”, il giornale concorrente, “l’Adige”, scriveva che “La sedicente principessa difende rabbiosamente il suo passato”. E poi ancora l’”Alto Adige descriveva così l’imputata: “Nell’udienza di ieri Sonja Ballasch è tornata in aula con lo stesso abituccio dismesso, modesto, il viso più che mai olivastro e scavato, lo stesso incedere maestoso, i capelli biondissimi, gli occhi estremamente mobili, quasi agitati da un tormento febbrile”.
Quello che però stava uscendo da quel “processo rompicapo” (come era stato chiamato dalla stampa) erano ulteriori domande che anziché trovare risposte plausibili aggiungevano solo altre incertezze in chi era chiamato a giudicare. Come ad esempio ciò che si domandava l’”Alto Adige” quando scriveva: “La cameriera dei von Hoepfner ha dichiarato che la donna che capeggiava la banda presentava una “macchia di natura” sul viso. Come è possibile conciliare questa “macchia” con la responsabilità della Ballasch che di macchie non ne porta traccia?”
Tuttavia ciò che sempre più teneva banco nell’opinione pubblica non era tanto il reato di cui la Ballasch doveva rispondere, quanto piuttosto il nodo della sua misteriosa identità. Insomma, col tempo era accaduto che in assenza di prove, l’opinione pubblica, trascinata dai pregiudizi e dalle sensazioni più che dalla razionalità, si fosse polarizzata sulla dicotomia principessa/avventuriera, tifando per l’una o l’altra parte, mentre l’accusa di rapina per la quale era stata chiamata in giudizio pareva fosse passata in secondo piano.
Sul versante della dimostrazione dell’identità, la difesa della sedicente principessa (sostenuta economicamente dalla contessa Thun e da altre nobildonne) sembrava purtroppo segnare il passo, nel senso che i documenti che era riuscita a ottenere dall’estero a riprova delle sue origini erano più deboli di quelli portati dall’accusa. Così, mentre sempre più numerosi erano coloro che consideravano i racconti di Evelyn solo un’abile storia romanzata (come sostenuto dal barone von Hoepfner), avvicinandosi il giorno della sentenza e in mancanza di nuovi elementi, iniziava lentamente a scricchiolare la difesa della principessa e con essa pure la sua credibilità. Eppure, fra tanti dubbi e contraddizioni, motivi per credere alla sua storia potevano essercene. Vediamoli.
Per prima cosa è necessario valutare il contesto in cui si trovavano allora ad operare avvocati e investigatori, e cioè la difficoltà oggettiva di ottenere risposte ufficiali dalla Polonia che in quegli anni si trovava al di là della cosiddetta “cortina di ferro”. Infatti la città di Pless (oggi Pszczyna), come il resto della Polonia, dopo la Seconda Guerra Mondiale aveva subìto grandi rivolgimenti politici che avevano portato il Paese a diventare di fatto uno stato satellite dell’Unione Sovietica. Il clima da guerra fredda aveva poi congelato qualsiasi comunicazione fra i blocchi, compresa la possibilità di ottenere risposte in merito alla famiglia dei von Pless da un regime comunista che – ricordiamolo – aveva avuto come obbiettivo pure quello di abbattere la nobiltà e cancellarne qualsiasi traccia. Un silenzio imbarazzante quello di allora, quasi di omertà, che a distanza di ormai 80 anni pare essere ancora in vigore dal momento che anche le recenti ricerche compiute dal sottoscritto presso il “Museo von Pless” e presso le parrocchie della città, sia cattolica che evangelica, non hanno ottenuto alcuna risposta. Ma a riprova dell’identità della ragazza, cos’era stato presentato nel corso delle udienze processuali?
La sedicenne Elfi a Pless, nei pressi del Castello
Prima di riferire, anche qui s’impone una riflessione. Se il racconto di Evelyn fosse stato vero ci troveremmo di fronte a una ragazza che alla nascita venne sì riconosciuta dal padre, ma che di fatto crebbe senza una vera famiglia, tenuta in disparte perché frutto di un “flirt principesco”, come venne scritto sui giornali dell’epoca. Quindi un caso da nascondere più che da mostrare. Se poi aggiungiamo che la principessa si trovava in quel momento in carcere, accusata di rapina, è comprensibile che una famiglia di nobili origini come i von Pless fosse nelle condizioni di dover difendere dal discredito il buon nome del casato e dunque negasse l’appartenenza di Evelyn al proprio albero genealogico. Senza ovviamente considerare anche eventuali diritti ereditari che forse la figlia avrebbe potuto un domani reclamare.
Fin qui il ragionamento. I fatti, a loro volta, ci dicono che alcune informazioni giunte da Londra per voce di un avvocato di famiglia non smentirono la consanguineità con i von Pless, mentre altre notizie pervenute direttamente dai delegati del Principe sostennero invece che la ragazza “non ha alcun diritto di servirsi del nome di principessa von Pless, ma le spetterebbe semmai quello di sua madre, la nobildonna Osorovska”, come a riconoscerne implicitamente l’esistenza. E ancora, secondo quanto riportato dai giornali del tempo: “La moglie del principe avrebbe dichiarato di non aver mai incontrato tale Sonja Ballasch e di ignorane del tutto l’esistenza”, cosa del tutto plausibile dal momento che la stessa Evelyn aveva sempre sostenuto che quel nome e cognome, scritti sul passaporto fornitogli dal Wolter durante la fuga, erano completamente falsi.
Così, il 10 giugno del 1950, a Bolzano, in quell’Alto Adige che dopo la fine della guerra era diventato per molti criminali nazisti in fuga una delle ultime aree verso cui ripiegare per cercare salvezza, la tesi sostenuta dall’anima nera di questa vicenda, il barone von Hoepfner, trovava alla fine soddisfazione. Dopo due anni e cinque mesi di prigionia, per Sonja Ballasch, alias Evelyn von Pless, giungeva il verdetto di colpevolezza: “Anni due e mesi cinque di reclusione e lire 10.000 per rapina aggravata, più lire 100.000 come rifusione delle spese di costituzione civile, più ancora otto mesi per oltraggio al giudice della corte”. Quest’ultima pena veniva però condonata e al contempo ordinata l’immediata scarcerazione della Ballasch se non detenuta per altra causa.
Per la giovane era un colpo durissimo. Ma purtroppo la sua dolorosa avventura non finiva lì. Infatti, in quel momento per il Governo italiano Evelyn era considerata apolide, cioè priva di cittadinanza, in quanto in possesso di un passaporto falso e senza altri documenti che potessero comprovare il suo status. L’unica possibilità prospettata dalla legge era perciò quella dell’internamento presso il campo di Farfa Sabina (Rieti) ancora gestito dall’esercito americano sotto il nome di I.R.O., “International Refuge Organization”.
I.R.O – International Refuge Organization di Farfa in Sabina
Trasferita in quella che diventerà la sua residenza forzata ancora per diversi anni, Sonja Ballasch da qui, tramite il nuovo legale, l’avv. Giuseppe Frizzi di Trento, chiederà la revisione del processo. Una scelta, quella della giovane polacca, che sottolinea come lei cercasse il pubblico riconoscimento della sua identità di principessa più che la riabilitazione da una pena che ormai era stata scontata. Un puntiglio, in un certo senso, in risposta all’accusa di “volgare donnaccia” che durante il processo le era stata affibbiata più volte dal von Hoepfner.
In quel periodo Elfi continuò a tenere una fitta corrispondenza con Maria Hausbergher, la sua madrina di battesimo e da una mia ricerca presso Farfa Sabina, riuscirà negli anni seguenti a farsi notare anche in quel contesto di rifugiati e di clandestini.
Mi racconta l’anziano giornalista locale Franco Leggeri che a Farfa veniva concesso alla ragazza una specie di trattamento di favore. Infatti, a differenza delle altre persone di varie nazionalità relegate nel campo, alla “principessa” era talvolta permesso di uscire per recarsi nella vicina proprietà del conte Giuseppe Volpi di Misurata, dove poteva prendere il sole in costume e bagnarsi nella piscina della villa. Da quanto ricorda Franco Leggeri, tale atteggiamento della giovane, sollevò le rimostranze di molti ospiti del campo che lo fecero presente alle autorità.
Sempre durante le mie ricerche ho rinvenuto un questionario dell’I.R.O in cui Evelyn von Pless risponde che appena possibile sarebbe suo desiderio espatriare in Canada oppure in Australia, forse delusa per il trattamento ricevuto in patria dalla famiglia.
Tornando al nuovo processo, quello ebbe inizio nel gennaio del 1952 e si concluse il 16 dicembre del 1958. Alle udienze erano assenti gli accusatori della Ballasch, i due soci in affari Wolter e von Hoepfner: il primo, fuggito in Sud America ormai da parecchi anni; il secondo, resosi irreperibile con tutta la famiglia cinque mesi prima del dibattimento e – come ipotizzavano i giornali – tornato a Berlino, probabilmente nel settore inglese. L’avvocato Frizzi, un esperto e affermato legale, già dalle prime battute dichiarerà che finalmente “la vera identità della principessa sarà inequivocabilmente accertata nel corso del processo”. E così concluderà la sua arringa: “Il barone von Hoepfner non è un uomo da essere creduto. Stando alle sue stesse parole non ha forse il barone commerciato sulla carne di numerosi ebrei? Guardate bene o signori della Corte tutti gli atti di questa triste vicenda che ha portato questa povera creatura, che nessuno può dire non sia la vera principessa von Pless, di fronte a voi”.
Cosa avesse in serbo l’avvocato in merito all’identificazione dell’imputata non è dato di sapere, certo è che il secondo atto della complicata vicenda non porterà a nulla di nuovo se non alla conferma della colpevolezza di Sonja Ballasch in primo grado.
La storia di Sonja, alias principessa Evelyn von Pless giungeva così al termine. Fino al 1958 sappiamo che la ragazza rimase a Farfa Sabina, poi di lei si persero le tracce. Le ultime parole prima di lasciare il nulla dietro di sé, Evelyn le riservò al suo legale: “Sono sfiduciata di questo mondo. Ho intenzione di chiudermi in un convento di clausura”.
Alla signora Maria Hausbergher, con la quale aveva mantenuto una corrispondenza per più di dieci anni, Elfi scrisse l’ultima lettera lo stesso giorno della sentenza, poi non scrisse più: “Piccola carissima Madrina, ogni promessa un debito, così anch’io. Dopo tre ore di consiglio, Lei sa già che è uscita la conferma per me. Ora ritorno a Roma. Sentiamo cosa mi diranno loro. Bisogna provare per comprendere. Se potete, mandatemi il giornale nel quale è scritta la mia conferma. Mi sento un po’ strana, accusata di essere una persona bugiarda e ladra, ma passerà anche questo. Certo che non posso essere a tutti simpatica per essere creduta.
Tanti saluti e grazie di tutto, sinceramente.
Evelyn o Sonja, come vuole che scrivo? Per lei è lo stesso, vero?
Nonostante due processi e dieci anni di indagini, l’enigma Ballasch-von Pless non aveva trovato una soluzione. Così, se la giovane ragazza bionda fosse veramente la principessa che diceva di essere sarebbe rimasto per sempre un segreto che solo lei poteva conoscere.
Chissà che fine avrà fatto? Sarà emigrata in Canada oppure in Australia? Sarà entrata in qualche convento di clausura? Si sarà sposata? Avrà avuto figli? Purtroppo, nonostante le mie lunghe ricerche non sono riuscito a scoprire nulla della sua vita dopo quel lontano 1958. Quello che so è che oggi quella ragazza avrebbe 101 anni.
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APPENDICE
RINGRAZIAMENTI A:
– Luciano Hausbergher per aver fornito la documentazione (articoli di giornale e epistolario)
conservata dalla nonna Maria
– Franco Leggeri per la testimonianza su Elfi nel periodo di soggiorno a Farfa Sabina
– Stefano Frizzi (nipote di Giuseppe Frizzi, difensore di Elfi nel secondo processo) per la messa a disposizione della sentenza della Corte di Assise di Appello di Trento del 1958
– Archivio Arcidiocesi di Trento per contributi alle ricerche
– Repubblica di San Marino, Segreteria di Stato per gli Affari Esteri per contributi alle ricerche
FONTI:
– Quotidiano “l’Adige”, vari numeri dal 1948 al 1958
– Quotidiano “Alto Adige”, vari numeri dal 1948 al 1958
– Quotidiano “Il Popolo Trentino”, 11 giugno 1950
– Quotidiano “Il Corriere Tridentino”, 10 giugno 1950
– Quotidiano “Il Corriere della Sera”, 6 giugno 1950
– Quotidiano “La Stampa”, vari numeri dal 1950 al 1959
– Rotocalco settimanale “Oggi”, giugno1950
– Rotocalco settimanale “Settimo giorno”, gennaio 1952
– “Saving One’s Own. Jewish Rescuers during the Holocaust” di Mordecai Paldiel
– “Escaping the Holocaust. Illegal immigration to the Land of Israel , 1939-1944” di Dalia Ofer
– “Enciclopedia dello spionaggio nella Seconda Guerra Mondiale”, Ed Teti Milano di Gianni Ferraro.