Vengono al pettine le contraddizione di una Unione Europea mal digerita
Telecom Italia diventa spagnola. Sembra un paradosso, ma è proprio così.
La società iberica “Telefònica” ha raggiunto un accordo con Generali, Mediobanca e Intesa San Paolo ed ha acquistato la loro quota di azioni salendo da una partecipazione, attraverso Telco, del 46% al 66% e mirando in una seconda fase al 70% del pacchetto azionario
In pratica ciò significa che d’ora in avanti il Consiglio di Amministrazione di Telecom sarà in maggioranza nominato dall’azienda spagnola. Inoltre, l’ azienda iberica aumenterà progressivamente il capitale di Telecom per stabilizzare la società.
Considerando le prevedibili lamentele di vari partiti politici italiani sulla “svendita” di aziende nostrane a partner esteri, occorre fare chiarezza su Telecom Spagna.
Innanzitutto Telefònica aveva già salvato Telecom nel 2007 formando una cordata con le società da cui ora sta acquistando la quota azionaria per risollevare le quote dell’azienda.
Punto secondo, un maggiore controllo da parte di un gruppo straniero sulla nomina dei futuri dirigenti di quest’azienda potrebbe essere un’ottima cosa: una diversa prospettiva, lontana da occhi italiani, potrebbe davvero portare aria fresca al mercato nazionale della telefonia.
Sul dibattito dell’intervento statale o di quello privato ogni qualvolta un’azienda italiana è sull’orlo del collasso, sempre prevale l’opinione del doveroso intervento dello Stato con la conseguente statalizzazione delle società. E’questa un’ottica tutta nostrana, basata su una scarsa fiducia nella privatizzazione delle aziende. Certo, considerando la sorte di molti marchi nazionali si capisce questa sfiducia, ma lo Stato, ora più che mai non può subentrare nel controllo effettivo di queste società, benché debba assolutamente controllare l’operato delle aziende per evitare il peggio.
Dalla “Dichiarazione Schuman” (1950) quando veniva avviata la formazione dell’Unione tra gli Stati europei al “Trattato di Maastricht”(1992) che istituì di fatto questa Unione, fino alle più recenti riforme, di strada ne è stata fatta molta, ma ahimè quasi sempre solamente sulla carta. Cambiare la mentalità di politici e cittadini comuni è difficile, ma si spera non impossibile. Così se nei momenti più bui di questa crisi economica si è parlato di ritornare alla vecchia Lira, o se quando un’azienda estera ne acquista una italiana si grida al misfatto scadendo in facili nazionalismi, si dimentica il vero scopo della cosiddetta Unione Europea, scopo che non consiste solamente nel poter passare da uno Stato all’altro senza essere controllati alla frontiera o poter viaggiare solo con la Carta d’Identità. Essere “europei” dovrebbe significare ben altro.
Principalmente l’Unione Europea dovrebbe essere un archetipo di solidarietà internazionale in cui anche l’intervento di un’azienda spagnola per salvarne una italiana potrebbe essere visto come la pura normalità e in cui lo scambio dovrebbe essere favorito anziché evitato.
A quanto pare però la strada per raggiungere questo obiettivo è ancora molto lunga, ma gli strumenti per essere “cittadini europei” non mancano, manca la volontà di scegliere.