ESCLUSIVO. Il prof. Piero Olliaro (Università di Oxford): “Vi aiuto a capire l’efficacia dei vaccini”

Comprendere l’efficacia e l’effettività di un vaccino non è semplice. Il professor Piero Olliaro ha provato a fare chiarezza, pubblicando un articolo sulla rivista scientifica The Lancet Microbe, unitamente ai colleghi Els Torreele e Michel Valliant (il link: https://www.thelancet.com/journals/lanmic/article/PIIS2666-5247(21)00069-0/fulltext?fbclid=IwAR2k4CONqgw82VLs_iD06a43-EP2_7Rm3hVbJTvqcFPTUCz9Uq_nlpEJKaw#%20). Il ricercatore italo-svizzero è docente in malattie infettive della povertà all’Università di Oxford e direttore dell’ISARIC (International Severe Acute Respiratory and Emerging Infection Consortium). Nello studio il professore analizza i risultati intermedi degli studi clinici vaccinali, illustrando inoltre parametri e criteri da prendere in considerazione al fine di valutare la reale utilità dei vari vaccini.
Ai fini di una corretta informazione si ricorda che tutti i vaccini anti-Covid attualmente disponibili nell’UE hanno ottenuto, da parte dell’EMA (European Medicines Agency), un’autorizzazione all’immissione in commercio subordinata a condizioni (per approfondire: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/QANDA_20_2390).
Professore, partiamo dal titolo dello studio. “The Elephant (not) in the room”, tradotto: “l’elefante (non) è nella stanza”. Perché?
Si utilizza l’espressione “The Elephant in the room” quando ci si riferisce a un problema che non viene affrontato apertamente. L’abbiamo “manipolata” per far comprendere che, in generale, non sembra esserci reale consapevolezza della presenza di questo “elefante”. L’articolo non mette in discussione l’efficacia dei vaccini, che è superiore alle attese, ma intende contestualizzare i risultati ponendo in luce due elementi mancanti”.
Sentiamo…
“Il primo: è sbagliato fare una classifica dei vaccini sulla base dell’efficacia riportata, perché sono stati testati in maniera diversa. Il secondo: per completezza di informazione, nel riportare gli effetti di un vaccino bisogna tenere conto anche della popolazione sulla quale il vaccino è testato e cioè riportare non solo la riduzione del rischio relativo, ma anche la riduzione del rischio assoluto”.
Spesso si ha la sensazione che le case farmaceutiche gareggino tra loro, battendosi a suon di percentuali: può quindi spiegarci le differenze tra “riduzione del rischio relativo” e “riduzione del rischio assoluto”?
“Come sosteniamo nell’articolo, ci sono due criteri principali per descrivere l’effetto di un intervento, quale un vaccino o un trattamento. L’“efficacia” riportata negli studi corrisponde alla cosiddetta “riduzione del rischio relativo”. Si divide la frequenza di casi di Covid-19 nel gruppo di soggetti che ha ricevuto il vaccino, per il numero di casi nel gruppo non vaccinato”.
Può fornirci un esempio concreto?
“Se per esempio (caso ipotetico) abbiamo 5 casi su 10.000 vaccinati e 100 su 10.000 non vaccinati, il rischio di contrarre Covid-19 in una popolazione vaccinata è solamente il 5% di quello che avrebbe la stessa popolazione senza vaccino. In pratica si stima un’efficacia del vaccino del 95%. Tuttavia, è altrettanto importante presentare i risultati tenendo conto del rischio di base senza vaccino, che varia da gruppo a gruppo e nel tempo. Questo calcolo si chiama “riduzione del rischio assoluto” (absolute risk reduction, ARR)”.
Di che cosa si tratta?
“La riduzione del rischio assoluto” è la differenza tra 100 e 5, cioè 95 su 10.000 o 0,95%. Questo ci permette di determinare l’“effettività” (effectiveness) del vaccino a livello di una popolazione in cui 1 persona su 100 si ammalerà di Covid-19 entro un certo periodo di tempo. A questo punto si può prevedere quante persone dovranno essere vaccinate per prevenire un caso di Covid-19, che in questo ipotetico caso è 105 (dividendo 1 per 0.95%). Questo numero (NNV, number needed to vaccinate) è una misura pratica usata per quantificare gli investimenti e i risultati ottenuti con interventi di salute pubblica”.
Quali sono i parametri più significativi?
“RRR, ARR e NNV sono tutti importanti. L’RRR quantifica gli effetti sulle persone a rischio (nell’esempio qui sopra quel 5% che si ammalerà in un certo tempo). L’ARR (e NNV) gli effetti su tutta una popolazione con un certo livello di rischio (nello stesso esempio, una popolazione nella quale il 5% si ammalerà). L’articolo dimostra che pure i vaccini con “efficacia” (espressa come RRR) più modesta (tipo Astra-Zeneca/Oxford e Johnson & Johnson), aventi RRR intorno al 67%, hanno un valore pratico eccellente, con NNN intorno a 80: prevengono un caso di Covid-19 ogni 80 persone vaccinate, in popolazioni in cui ci sarebbero circa 18 nuovi casi su 1.000 abitanti, senza vaccino, in un certo periodo di tempo”.
Bisogna prendere in considerazione anche altri aspetti?
“È importante ricordare che anche gli effetti della vaccinazione (insieme ad altre misure di contenimento) vanno ben al di là della riduzione del rischio dell’individuo singolo, ma coprono la popolazione intera, riducendo il rischio collettivo, il numero di ammalati, l’intasamento degli ospedali, i costi sociali, favorendo la ripresa dell’economia, etc… Quindi, nel valutare l’importanza dei vaccini, non dobbiamo limitarci ai soli valori di efficacia nel prevenire un caso di Covid-19”.
A che punto è, invece, la sperimentazione dei vaccini “tradizionali” (tipo quelli a virus inattivato)?
“Il vaccino CoronaVac, prodotto in Brasile sulla base del vaccino cinese Sinovac, ha avuto un’efficacia (RRR) di circa soltanto il 50%, nell’ambito di uno studio che però è stato condotto tra il personale sanitario, il cui gruppo di controllo non vaccinato ha avuto un tasso di Covid-19 del 3,6% nel breve periodo dello studio, cioè di circa il doppio rispetto agli studi di Astra-Zeneca e J&J e quattro volte rispetto allo studio della Pfizer. In queste condizioni si previene un caso di Covid-19 ogni circa 55 vaccinati. Distribuito a livello di popolazione in una cittadina del Brasile, con alti tassi di Covid-19, questo stesso vaccino sta producendo una netta riduzione dei casi e decessi da Covid-19”.
Quali sono le Sue considerazioni, al riguardo?
“Evidentemente ci aspettiamo che vaccini più “efficaci” abbiano un’effettività ancora più marcata, ma questo dimostra ancora una volta l’importanza di considerare la riduzione del rischio assoluto e il ruolo di vaccini anche potenzialmente meno efficaci (in termini di RRR), quando altre opzioni non sono disponibili, almeno in una prima fase di attacco”.
La Sua pubblicazione rivela che l’efficacia del vaccino varia da Paese a Paese. Alla luce di ciò, uno studio condotto in Brasile o in Usa può dirci qualcosa della sua efficacia in Italia?
“L’efficacia dei vaccini varia in funzione della loro capacità di stimolare una robusta risposta immunitaria, del virus in questione e del livello di rischio nella popolazione studiata (per esempio, il personale sanitario è ovviamente un gruppo ad alto rischio, così pure come chi è stato in stretto contatto con un malato). Studi in popolazioni dove prevalgono varianti meno sensibili a un certo vaccino potrebbero non applicarsi, ora, ad altri Paesi, ma si rivelano ugualmente importanti perché ci aiutano a predire quale potrebbe essere la situazione nel caso tali varianti arrivassero nel Paese. L’epidemiologia di questi virus è tuttavia un processo molto dinamico e diverse varianti circolano contemporaneamente in proporzioni che cambiano nel tempo. Fare un buon lavoro, ridurre al massimo il rischio rapidamente è importante per mettersi al riparo dall’insorgenza di nuove varianti del virus”.
Soffermiamoci sulla definizione di “Covid”: perché i sintomi presi in considerazione negli studi delle case farmaceutiche non sono stati gli stessi?
“Ottima domanda, alla quale esistono due risposte: una breve e una lunga”.
Partiamo da quella breve…
“Perché le scelte sono lasciate all’industria farmaceutica”.
E la risposta lunga?
“Quella lunga prende in considerazione vari aspetti. Il primo: nella primavera scorsa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva sì proposto un sistema per testare i vaccini tutti con lo stesso protocollo, ma questo non è mai stato attuato perché le ditte farmaceutiche hanno deciso di andare ciascuna per contro proprio. Quindi sarebbe stato possibile confrontare direttamente diversi vaccini, tuttavia non è stato fatto.  Il secondo: i protocolli divergono per vari aspetti. Per esempio: quali e quanti sintomi vengono considerati per la diagnosi di Covid-19, a quale punto si contano i casi, etc… Non so dire quale sia il razionale dietro ciascuna di queste scelte”.
 
Ha avuto modo di formulare un’ipotesi?
“In genere sono stati privilegiati criteri di malattia “lieve” come criterio principale, sebbene siano stati riportati effetti su ricoveri e decessi, ma i numeri non sono sufficienti per trarne conclusioni statisticamente significative”.
Esiste poi un terzo aspetto?
“Sì: questa pandemia sta mettendo in risalto la debolezza e l’iniquità del sistema attuale in materia di ricerca e sviluppo di prodotti farmaceutici. Alla base di questi vaccini, come di molti farmaci, ci sono ingenti investimenti pubblici e da parte di organizzazioni benefiche, che, nel nome del “libero mercato” non si traducono in benefici quali equità nei prezzi o addirittura disponibilità, come stiamo vedendo. Tutto ciò si è tradotto in una frammentazione a scapito della coordinazione che si sarebbe dovuta evidenziare, come affermiamo nell’articolo. Questa pandemia dovrebbe insegnarci che dobbiamo riprendere in mano le priorità della salute pubblica”.
Cosa ne pensa della trasferibilità degli studi di fase III al mondo reale?
Uno studio clinico di fase III è tipicamente lo studio utilizzato per fornire l’evidenza che un intervento quale farmaco o vaccino è efficace e tollerato al fine della sua registrazione e autorizzazione da parte dell’agenzia del farmaco (per intenderci, AIFA in Italia, EMA per l’UE). Questi studi sono condotti in condizioni controllate, il che vuol dire anche che i soggetti devono rispondere a una serie di criteri per essere arruolati. Chiaramente nella realtà le cose cambiano e il vaccino viene offerto a una fascia ben più ampia della popolazione, salvo controindicazioni. Comunque, il fatto che i risultati ottenuti in fase III siano trasferibili alla quotidianità sembra essere confermato dai dati della vaccinazione di massa in Israele: RRR del vaccino Pfizer/BioNTech sovrapponibile a quello dello studio clinico. Importante: lo studio riporta correttamente sia l’RRR, sia l’ARR per gli effetti su infezione, malattia, ospedalizzazioni, etc., come sosteniamo si dovrebbe fare”.
Non ritiene che lo studio abbia un limite di “generalizzabilità esterna”? E cioè che dimostri l’efficacia del vaccino in presenza di misure di distanziamento? Si può sostenere che, in assenza del distanziamento, l’efficacia del vaccino rimanga invariata?
“Le misure di distanziamento sono uno dei fattori che determinano il livello di rischio in una certa popolazione e in vari sottogruppi. Ci sono vari studi che mostrano che la vaccinazione funziona anche in gruppi ad alto rischio quali personale sanitario e RSA in condizioni reali. Tuttavia, credo che per ottimizzare gli effetti della vaccinazione sia necessario vaccinare nel contesto di altre misure di riduzione del rischio per arrivare più rapidamente a una riduzione significativa dei casi e del rischio collettivo”.
Stagionalità del virus: se e quanto può incidere ai fini della campagna vaccinale?
Non penso di avere le competenze per esprimermi a tal riguardo. Ci sono vari modelli matematici su questo tema. Comunque vale la pena ricordare alcune nozioni fondamentali. La prima: bisogna innanzitutto arrivare a una situazione di “immunità collettiva” e sapere che percentuale della popolazione deve essere protetta per raggiungere questo stato. La seconda: la “protezione” ha una durata limitata nel tempo e potrebbe essere meno efficace contro certe varianti, il che vuol dire che si dovrà rivaccinare periodicamente, probabilmente con nuovi vaccini, un po’ come si fa per l’influenza. La terza: non si può rispondere a questa domanda per un singolo Paese, a meno che in questo non vengano messe in atto misure draconiane sulla circolazione delle persone, misure che non sono sostenibili. La dimensione della questione non è un Paese singolo, è il Mondo intero. Quindi bisogna investire nella vaccinazione sistematica e nell’accesso ai vaccini in tutti i Paesi che per ora non ne hanno ancora, perché se li sono accaparrati i Paesi ricchi e la produzione è colpevolmente limitata”.
Il Presidente Draghi, unitamente agli esponenti della comunità scientifica, ha dichiarato che le mutazioni del virus potrebbero minare l’efficacia dei vaccini: qual è il Suo parere?
“Non sono un virologo. Leggo, come tutti, pubblicazioni scientifiche che mostrano una ridotta efficacia nei confronti di certe varianti in circolazione, al momento. Sappiamo che ce ne saranno altre (i coronavirus mutano frequentemente), ma ovviamente non sappiamo quale livello di protezione offriranno gli attuali vaccini nei loro confronti. Il che vuol dire che bisogna continuare da una parte a sorvegliare la situazione, dall’altra a investire in ricerca per vaccini adattati e, per finire, in politiche sanitarie che ci permettano di rispondere in maniera pronta ed efficace a questa e ad altre epidemie”.
Foto,  Piero Olliaro