Mentre negli altri paesi europei si continua ad aumentare la soglia di retribuzione minima, in Italia, da 30 anni or sono, si assiste ad uno stallo totale. In realtà, già nel 1954 venne depositata, da parte di alcuni deputati della Repubblica italiana, una proposta di legge relativa ad una remunerazione minima per tutti i lavoratori.
La proposta di legge, che portava la firma di ben 18 deputati (Noce Teresa, Di Vittorio, Santi, Foà, Pessi, Roasio, Maglietta, Ravera Camilla Laconi, Moscatelli, Li Causi, Massola, Cianca, Bettoli, Giolitti, Grasso Nicolosi Anna, Del Vecchio Guelfi Ada, Bei Ciufoli Adele), fu intenta a contrastare la precarietà che, già all’epoca, era cospicua nel nostro paese. Nel documento originale si sottolineava il progressivo aumento dei costi di vita, si faceva riferimento alle categorie di lavoratori il cui salario era miserevole (tra cui maestre, operai, manovali, ecc.) e alle zone geografiche nelle quali il livello di povertà e di precarietà sfiorava la soglia dell’assoluto. Il tutto nel nome dell’imprescindibile articolo 36 della Costituzione che, rimasto invariato fino ai giorni d’oggi, recita: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Potrebbe sembrare che ci si riferisca ai giorni odierni: l’inflazione in costante aumento, ormai persistente e che, apparentemente, rimane irresoluta, con la conseguenza che il tenore di vita scarseggia ed il potere di acquisto diminuisce; gli educatori e gli istruttori percepiscono tutt’ora una retribuzione che non valorizza affatto la loro indispensabile prestazione culturale, istruttiva e sociale; e poi il Mezzogiorno che, citato già nell’allora proposta di legge, si ritrova tutt’oggi a fronteggiare un alta percentuale di precarietà e di disoccupazione.
Erano 7 gli articoli che costituivano la proposta di legge: una retribuzione nazionale non inferiore alle 100 lire orarie (corrispondenti, ai giorni d’oggi, a 1,50 euro) e alle 800 lire per il normale orario di 8 ore (12,50 euro); la retribuzione doveva spettare a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro qualifica; il salario minimo non si applicava agli apprendisti, ma si applicava, invece, ai minori d’età, uomini o donne, qualunque fosse il loro lavoro, se assunti per compiere questo lavoro; le ore supplementari alle 8 ore quotidiane dovevano essere retribuite a parte; si dovevano considerare impregiudicate ed invariate le condizioni di lavoro migliori di quelle proposte con il seguente documento; I datori di lavoro che trasgredivano la legge sarebbero stati puniti con una multa che variava dalle 10.000 alle 100.000 lire; infine, il ministero del lavoro avrebbe emanato il regolamento della presente legge entro tre mesi dalla sua entrata in vigore.
Purtroppo, la proposta di legge non raccolse nessun consenso e, come è facile immaginare, fu come se non fosse mai stata proposta. A quasi 80 anni di distanza dalla suddetta proposta nulla è, incredibilmente, cambiato. Anzi, lo sfruttamento da parte dei datori di lavoro è tutt’ora diffuso, talvolta i contratti sono inesistenti e le condizioni di lavoro pessime. Quando arriverà il momento in cui si prenderà sul serio una proposta indispensabile per migliorare la vita lavorativa e, di conseguenza, la vita in generale degli italiani? E pensare che l’onorevole Piero Fassino, nel suo celebre discorso pubblico, dichiara di guadagnare “solo” 4,700 euro per due giorni di lavoro alla settimana, definendolo “non uno stipendio d’oro”. Viene da chiederci se l’onorevole vive nella realtà o, piuttosto, in un mondo parallelo, tra le mura di Montecitorio.